domenica 27 febbraio 2011

Sublime stanchezza, dispettosa ironia

«[...] Se Eduardo non ci fosse non ci sarebbe Gennareniello. Perché questo, davvero, è un prodigio della sua arte d'attore: di disegnare la silhouette d'un personaggio tutta sul togliere, tutta su levare. L'inquietudine, le pudiche incertezze, i magri scontenti, l'assillo sordo dell'inettitudine, questo e altro ancora, c'è nei silenzi di Eduardo, nelle esitazioni sofferenti, negli "a parte" sussurrati appena, in quelle occhiate in tralice, occhiate lunghe, a metà complici a metà seduttorie. Questa è la pienezza d'un attore giunto ai vertici del proprio magistero, questa è la sua grandezza. Poi, un farsi da parte, quasi, calcolatamente, un cedere il passo. Come già accadde con Franco Parenti, a metà Anni Sessanta, Eduardo lascia spazio al figlio Luca in Dolore sotto chiave. [...]
Poi (e siamo già sulla mezzanotte) il trionfo con Sik-Sik, l'artefice magico. Ho scritto altrove che questo mimodramma è, nella folta produzione di Eduardo scrittore, uno dei vertici. C'è la pittura d'un mondo, il mondo dei guitti del variété che si fa lingua, e lingua teatrale, d'una animalesca, straziata evidenza. Il parlar straparlando di Sik-Sik, l'illusionista da strapazzo, il suo rincorrere l'italiano degli altri reinventando, a supporto, un italiano cosi altamente improbabile da parere, in tutto e per tutto, vero, è già di per sé, una prodigiosa invenzione. Ma poi c'è Eduardo attore, cilindro sghembo, giacchettina lisa. C'è la sua patetica caparbietà a cavalcare quelle parolone irte, la sua sublime stanchezza (la vedi, annidata là sotto le palpebre) nell'inventare trucchi inutili, l'aria di dispettosa ironia con cui guarda gli orchestrali fuori tempo, le "spalle" fuori battuta, quel riuscire a fingere, insomma, con splendida misura, d'essere un uomo senza qualità. Fioccano gli applausi, la gente non si stacca dalla poltrona. Sono gli applausi di chi ha riconosciuto negli antieroi di Eduardo la propria faccia nascosta, "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo"».

(Guido Davico Bonino, La Stampa, 4 maggio 1980)

mercoledì 23 febbraio 2011

23 febbraio 1933. Uomo e galantuomo

Uomo e galantuomo è la prima commedia in tre atti scritta da Eduardo. Secondo alcuni documenti risalirebbe al 1922, secondo altri al 1926. Scritta per la compagnia di Vincenzo Scarpetta con il titolo Ho fatto il guaio?… Riparerò, unisce vari generi, a partire dalla pochade, con la rappresentazione  della situazione tipica del triangolo amoroso moglie-marito-amante. Accanto a questa tuttavia troviamo personaggi e intreccio che richiamano la farsa napoletana, con la scalcinata compagnia di attori il cui capocomico, nella versione originaria, era ancora rappresentato dalla figura di Felice Sciosciammocca. Soprattutto per alcuni personaggi, risulta evidente il richiamo alle figure tradizionali del teatro farsesco, come ad esempio nel caso di Alberto, il "mamo" ovvero il giovane sciocco, e Salvatore, il guappo. Questa scelta deriva, oltre che dalle influenze della drammaturgia dell'epoca, a cominciare da quella paterna, anche dalle esigenze della compagnia per la quale fu scritta, molto legata alla rappresentazione dei ruoli fissi tradizionali.

Alcuni critici hanno evidenziato anche un influsso di Pirandello, per il tema della pazzia simulata per coprire un tradimento. Si tratta comunque più che altro di una parodia, poiché nella commedia eduardiana la situazione ha dei risvolti comici. Tra l'altro la parodia era spesso presente nella tradizione comica napoletana e in questo stesso lavoro, in maniera più aperta, Eduardo rappresenta un'opera di Libero Bovio, mettendo in scena una delle situazioni più comiche di tutta la sua produzione drammaturgica, ovvero la celeberrima prova di Mala Nova, appunto di Bovio.

La versione originaria della commedia fu successivamente modificata per essere adattata alle esigenze della compagnia Il Teatro Umoristico I De Filippo. Furono eliminati alcuni personaggi di contorno; Felice Sciosciammocca, tradizionalmente interpretato da Vincenzo Scarpetta  che lo aveva "ereditato" dal padre, viene sostituito da Gennaro De Sia, viene alleggerito l'intreccio e sono attenuate le caratteristiche della pochade e della farsa.

La storia è quella di una compagnia piuttosto male in arnese che si trova a fare delle rappresentazioni in una località di villeggiatura. Le loro vicende si intrecciano con quelle di Alberto, che ha procurato la scrittura ai guitti, e la sua amante Bice. La donna confessa ad Alberto di essere incinta ma di non volerlo sposare. Lui però decide di presentarsi dalla madre di lei per chiederne la mano. Sarà grande la sua sorpresa quando scoprirà che la sua amata è già sposata con l'attempato conte Tolentano. Per rimediare si finge pazzo ma il suo stratagemma rischia di essere scoperto per l'intervento del capocomico Gennaro. Alberto viene infine arrestato. Bice, per discolparlo, confessa al delegato di polizia di aver tradito suo marito perché tradita a sua volta da lui. Sarà quindi ora il conte a fingersi pazzo e lo stesso Gennaro, convocato dal delegato per non aver pagato il conto dell'albergo, concluderà la commedia con la cantilena della finta pazzia:

sabato 19 febbraio 2011

Occhiali neri

Occhiali neri è un atto unico scritto da Eduardo nel 1945 che, cronologicamente, si colloca tra Napoli milionaria! Questi fantasmi!

La scena è ambientata in una villa di Torre del Greco, di proprietà dei fratelli Spelta, Mario e Maria, alla fine dell'estate. Da un colloquio di Maria con una vicina di casa, veniamo a sapere che i due fratelli si trovano a Torre del Greco, nella casa in cui erano soliti trascorrere le vacanze fin da bambini, già da un anno e mezzo. Mario, reduce della guerra d'Africa, in cui ha perso la vista, ha preferito infatti lasciare Napoli, dove non riusciva ad adattarsi alla sua nuova condizione. Nella casa di Torre del Greco invece si sente felice, rasserenato dai ricordi della loro infanzia.
In quel momento stanno attendendo l'arrivo del medico che ha sottoposto Mario a delle cure per tentare di fargli recuperare la vista; dovrà appurare se la terapia ha avuto esito positivo. Quando il medico arriva con il suo assitente, Maria va a chiamare il fratello che sta paseggiando insieme ad Assunta, la sua fidanzata. La donna ha portato con sé gli occhiali neri che Mario avrebbe dovuto indossare per un periodo, nel caso in cui avesse recuperato l'uso degli occhi. Maria invece, per scaramnzia, aveva evitato di comperarli. 

MARIA: Dottò, veramente,,, non li ho voluti comperare per buon augurio. Vuie me dicìsteve che se Mario, dopo l'esperimento, avrebbe riacquistato la vista, per un annno o due avrebbe dovuto portare gli occhiali neri... Si sèrveno... sperammo 'a Madonna!... Allora l'accatto.

[...]

ASSUNTA: Buongiorno. Dottò, ho portato gli occhiali neri. (Li prende da una borsetta e li mostra) Me ne sono ricordata io.

Prima di procedere a togliere le bende che gli coprono gli occhi però,  Mario chiede al dottore di poter rimanere da solo con Assunta. L'uomo ha colto le aspettative della fidanzata sull'esito dell'esperimento e teme che, se non dovesse riacquistare la vista, lei possa rifiutarlo o, peggio, sposarlo solo per pietà. La conversazione conferma i suoi timori.

MARIO: [...] Se io resto cieco, tu me spuse cu 'o stesso piacere? (Pausa)Rispunne ampresso Assù... Io nun ce veco, nun pozzo vedé l'espressione d' 'a faccia tua. Me spuse cu 'o stesso piacere?
ASSUNTA: (con falso entusiasmo) Sì.
MARIO: (a cui non è sfuggita l'incertezza di Assunta) Chiamma 'o duttore.

Quando il dottore toglie finalmente la benda, Mario afferma di riuscire a vedere e che quindi l'esperimento è riuscito. A quel punto però gela l'entusiasmo di Assunta, comunicandole che non è sua intenzione legarsi a lei. Rimasto solo con Maria, che chiede i motivi di questa decisione, l'uomo spiega di aver capito che Assunta, se fosse rimasto cieco, lo avrebbe sposato solo per pietà mentre lui non desiderava elemosina da nessuno. All'obiezione di Maria che comunque l'esperimento era riuscito, il fratello confessa la verità: i suoi occhi non vedono e non vedranno più;  è stato lui quindi a "fare la beneficienza" alla fidanzata.

MARIO: Nun te piglià collera. Doppo duie anne, me so' abituato. 'A vita mia me l'aggio accunciata comme me piace a me. 'A notte ce veco... quanno dormo. Dint' 'o suonno veco 'o munno comme vogl'io, 'a gente comme piace a me. E me fa pena 'a gente ca ce vede pecché a notte se cócca stanca' e nun se pò sunnà niente. E allora, vamm' 'o llieve 'a capa... siccomme 'e notte ce veco, 'e iuorno me pare comme si ll'ate fosseno tutte cecate. E vulesse na cosa sola... Ca vedesseno 'e iuorno tale e quale comme io veco 'e notte.

 L'atto si chiude sulla terrazza, dove fuori scena si sentono le voci di due vicini, già comparse in apertura, che parlano della ricostruzione della casa di uno dei due, andata distrutta durante la guerra. Mario aiuta la sorella a dipanare una matassa di lana, quasi a rappresentare il suo voler restare ai margini della vita che continua all'esterno e più in generale nel Paese dell'immediato dopoguerra.

Secondo quanto riporta Anna Barsotti, questo atto unico non fu mai rappresentato. Paola Quarenghi invece cita una messa in scena, che risalirebbe al 17 dicembre 1945 al San Carlo di Napoli, in una "Mattinatissima" destinata ad un pubblico di giornalisti, probabilmente organizzata per beneficienza. Tra i protagonisti, oltre ad Eduardo e Titina nel ruolo dei due fratelli, anche Tina Pica e Pietro Carloni.
Nel 1959 fu registrata l'edizione radiofonica con Achille Millo e Regina Bianchi nel ruolo dei protagonisti, Pupella Maggio ad interpretare la vicina di casa mentre Eduardo si riservò la parte di Rafele, l'uomo di fatica di casa Spelta.


Bibliografia
Eduardo De Filippo, Teatro, Vol. II, a cura di Paola Quarenghi e Nicola De Blasi (Mondadori - I Meridiani)
Eduardo De Filippo, Cantata dei giorni dispari, Vol. I, a cura di Anna Barsotti (Einaudi)

mercoledì 2 febbraio 2011

O capitano, mio capitano!

Nel 1981 Ferruccio Marotti, titolare della cattedra di Storia del teatro e dello spettacolo all'Università di Roma, invitò Eduardo a tenere un corso di Drammaturgia della durata di tre anni. Alla prova di ammissione si presentarono trecento candidati che, dopo estenuanti sedute di lettura pubblica dei rispettivi elaborati, furono tutti ammessi a seguire il corso, con un'unica differenziazione tra allievi scrittori ed uditori. Tra i primi c'era Maria Letizia Compatangelo, oggi giornalista e autrice di testi teatrali. A distanza di vent'anni  ha voluto ripercorrere in questo libro la storia di quella esperienza unica attraverso i suoi ricordi, le riflessioni di allora e le riflessioni che dopo anni sono maturate.

Di grande interesse è il capitolo in cui l'autrice analizza il metodo di insegnamento di Eduardo, definito come «un metodo nuovo da una tradizione antica», in cui confluiscono "l'apprendistato della bottega teatrale", attraverso il quale si apprende la tecnica, le basi del mestiere di drammaturgo, ed "il dialogo maieutico" che, mutuando il termine da Socrate,  deve portare gli allievi ad avere «il coraggio di scrivere».

Un altro capitolo è poi dedicato al racconto della messa in scena, fortemente voluta da Eduardo, di una delle commedie realizzate durante il corso da uno degli studenti, Claudio Brachino, dal titolo Mettiti al passo! Il testo venne presentato a sorpresa nel cartellone della stagione 1982-83 del Teatro Valle di Roma. Il maestro non voleva che il lavoro svolto all'interno della Scuola rimanesse relegato in un ambito ristretto, attraverso una rappresentazione realizzata dagli stessi allievi, come una sorta di saggio di fine corso. Il suo obiettivo era invece quello di portare la nuova drammaturgia emergente nei circuiti teatrali nazionali, con il coinvolgimento di una vera compagnia di professionisti (gli interpreti furono Paolo Graziosi e Lina Sastri), diretta da lui stesso. Naturalmente questa notizia creò delle aspettative molto alte che andarono purtroppo deluse e la commedia fu demolita dalla critica. Scrive a questo proposito la Compatangelo: